Deve esserci stato un momento in cui i giornali – a nostra insaputa – hanno assunto per poco sembianze animali. Magari senza arti e organi sensoriali, ma sicuramente hanno sviluppato improvvisamente e di nascosto un loro apparato riproduttivo. E non si sono fermati lì. Dovendo altrettanto nascostamente sfruttare l’opportunità che le nuove e temporanee sembianze gli offrivano, si sono imboscati in qualche tipografia abbandonata e… hanno copulato.
Ne sono certo: si sono accoppiati Il Giornale e Repubblica, che tra l’altro hanno la stessa età. Anche altri l’hanno fatto. Mentre il Corriere della Sera stava a guardare. Soddisfatto già del suo voyeurismo, perché tanto sapeva che di lì a poco avrebbe visto i frutti di tanta attività riproduttiva. I segnali già c’erano. Qualche peccatuccio il Corriere doveva già averlo fatto. E qualche cosa ne era nato. Ma attribuirlo al colosso di via Solforino era tanto facile da diventare ovvio e quindi trascurabile.
Ora c’era di più. I suoi simili, al suo cospetto, procreavano per lui. La conferenza episcopale era distratta, fuorviata dalla considerazione che si trattasse – almeno apparentemente – di giornali. Non c’era nessuna commissione bioetica. Il paese doveva ancora riprendersi dalla legalizzazione del divorzio. Credo che di aborto ancora non si parlasse. Dunque tutto accadde nel silenzio.
E quei giornali si accoppiavano e procreavano, procreavano e si riaccoppiavano. Generando mostri. Io non c’ero. C’era solo il Corrierone a guardare, ad assistere ai parti molteplici. Io non c’ero e per tanto tempo ne sono rimasto all’oscuro, fino a quando, incautamente, ho deciso di voler fare il giornalista. All’inizio non me ne accorsi, ma poi, fu un poco alla volta tutto fu chiaro. In ogni città, anche poco popolosa, anche provincialissima, era cresciuto, aveva messo su casa, un figlio naturale di quegli orribili accoppiamenti. Mica tutti uguali, per carità. Ma tutti, dico tutti, con in bella evidenza i cromosomi dei genitori.
La faccio corta, perché a questo punto dovrei anche fare i nomi di alcune di quelle creature e il rispetto per la privacy me lo impedisce. Mi limito a dire che ci sono in giro decine, centinaia di piccoli, terribili, insidiosissimi cloni della mamma Repubblicona, del papà Giornalone, dello zio guardone Corrierone. Sforzatevi di trovare un quotidiano locale che abbia una fisionomia tutta sua: magari un poco sciancato, magari bruttino, magari antipatico, magari ignorantino, ma che abbia papà e mamma lì, sul posto. Che parli la lingua della sua città. Non lo troverete. Troverete solo quotidiani furbetti (come i genitori illustri) che da un lato sviolinano una parte politica a loro vicina, dall’altra per piacere il più possibile a tutti si apparecchiano di cronachine piccine piccine e di necrologi. Quelli li leggono tutti.
E pensare che i consigli comunali sono campi di battaglia. Che le giunte sono consigli di amministrazione. Che i comandi di polizia locale sono centri di potere. Che le periferie sono polveriere e le aree industriali banche senza sportelli, solo con casseforti.
In questa community che è Diamocidelnord sono certo che finiremo per parlare molto di localismo, di decentramento, di autonomie, perché crediamo che il futuro di un paese moderno si giochi anche su questo: sul riconoscere che un’economia nazionale può funzionare solo come consorzio di economie locali e che lo sviluppo di questa nasca, possa nascere, solo dal confronto e dallo scambio. Ma economie locali vuol dire strutture sociali locali, vuol dire dinamiche locali, politiche locali. E diverse. E servono voci, critiche, stimoli, forti. Compresi quelli che vengono dall’informazione. Mentre scrivo sfoglio uno dei tanti quotidiani cittadini. La prima pagina apre con titoli su temi nazionali. L’alternativa è, può essere, un sanguinoso incidente su una strada provinciale. Poi la pagina di esteri, quella della cronaca. Lo sport. Ripongo le speranze in un articolo sui parcheggi sotterranei, ma vengo disilluso da una equilibrismo ponziopilatesco tra le ragioni dell’amministrazione comunale e quelle dei comitati di quartiere.
Non c’è inchiesta, non ci sono prese di posizione.
E pensare che non dico tutto, ma tanto, si gioca lì, sotto gli occhi della gente. Chi ne parla? Non di sicuro la stampa locale, almeno non come potrebbe. Lo fa, ma cercando sempre, ostinatamente, le accorte delicatezze, o le apparenti, clamorose dissonanze che potrebbero piacere tanto ai genitori Giornaloni.
Ne parla invece la gente. Al bar. Legge il giornalone o il giornalino mentre butta giù il caffè. Scorre i titoli che parlano di cose tanto importanti, ma tanto lontane. E poi parla d’altro. E soprattutto il suo è un altro parlare. Le cronache personali sono forse povere, ma profonde, si parte da bisogni, da dati oggettivi. Se si parla male della pubblica amministrazione è perché si sente la mancanza di servizi. Se si sparla degli stipendi dei politici è perché si fa fatica a tirare a campare. Lì, in questi confronti con al vivacità di un prosecco, dibattiti all’ultima sambuca, c’è, deve esserci l’argomento, la notizia, lo spunto. Da lì chi fa informazione dovrebbe partire a fare l’inviato nelle istituzioni, nelle economie. Nelle case.
Ci sarebbe spazio per un “Libero“ di provincia, fatto così com’è il quotidiano di Feltri – di provocazioni e toni accesi. Anche di un “Manifesto”, nel senso dell’analisi profonda e di parte. Perfino di un “Foglio”, colto spione nelle stanze dei bottoni e fucina di idee.
Personalmente posso parlare con precisa cognizione di causa. Per sentire il polso di una realtà urbana complessa come quella di Milano – dove abito – ho una fonte sicura: il bar del mio amico Nicola. Qui trovo il proprietario, schietto e magari un poco demagogico, il giovane ricco di convinzione e orgoglioso della sua dottrina, il signor Elio, profondo nelle storie, tagliente nei giudizi. Giuro, dico giuro, che nessuno è disposto a soffermarsi più di un mezzo minuto sulla citazione di un incidente stradale, di un lutto di quartiere, di una vanvera sui lavori in corso all’incrocio vicino. Eppure se apriamo le cronache locali o il quotidiano di città di questi leggiamo. Una proposta.
Un appello: baristi, diventate editori! E fate un giornale con quel che i vostri clienti vi dicono. Ma facendo esattamente come loro: alzando la voce, dicendosi in faccia “tu non capisci niente”, raccontando cose proprie e vere. Azzuffandosi. Salvo poi tornare nello stesso bar la mattina dopo.
Abbiamo bisogno di paese reale, scritto sui giornali.
Se volete sono disposto a fare il direttore responsabile. Mi basta il caffè pagato-
Mario Marchi