Il 7 maggio 2025, Alessandro Grimoldieu ha ospitato nel suo studio di Viale Monza 103 una serata fuori dagli schemi. Nessuna inaugurazione formale, nessuna parola di circostanza. Solo opere, corpo e pensiero. L’artista milanese ha presentato il progetto Verba Sublime, lasciando che fosse l’arte – e non il protocollo – a parlare per lui.
Una serata in cui lo studio diventa tempio e l’arte abbandona ogni cornice istituzionale per farsi respiro condiviso
Il 7 maggio 2025 non è stato il solito appuntamento con l’arte. Nessuna galleria, nessuna inaugurazione con ufficio stampa e flûte da Instagram. È successo qualcosa di più semplice e più raro: Alessandro Grimoldieu ha aperto il suo studio di Viale Monza 103 e ha accolto chi era pronto a vedere, non solo a guardare.
Non si trattava di un vernissage, ma di un’esperienza. In quel piccolo laboratorio-living, immerso tra opere, materiali e macchinari, l’artista ha mostrato senza spiegare, ha messo in moto senza dichiarare, lasciando che Verba Sublime – il nuovo ciclo di lavori – parlasse per sé. E ha parlato eccome.
Il linguaggio che diventa materia
Verba Sublime è un progetto che lavora sul potere della parola quando smette di essere veicolo e diventa struttura. Grimoldieu – già noto per la sua produzione orafa, scultorea e performativa – ribalta il processo creativo: non più l’oggetto che prende significato, ma il significato che prende corpo.
Le sue opere non sono quadri, non sono sculture. Sono dispositivi. Dispositivi energetici, come li definisce chi conosce la sua ricerca. Fatti di intrecci verbali ripetuti, stratificazioni lessicali che si fanno plastica, materia, superficie da toccare, leggere, subire. Il verbo si fa forma, la forma si fa scambio.
Il risultato è una serie di opere bidimensionali che sembrano essere emerse da una lingua primitiva e futuribile allo stesso tempo: ripetizione, ritmo, ipnosi. Un battito visivo che trasforma l’osservatore in parte attiva. Non fruitore, ma co-spiratore.
Il corpo, la tecnica, la visione
Grimoldieu non ama la definizione di artista multidisciplinare. Ma di fatto lo è. Laureato alla IULM in Comunicazione, con una seconda formazione all’Accademia di Brera, ha mescolato da sempre pensiero e gesto, idea e tecnica. L’arte orafa è il suo primo linguaggio, ma negli ultimi anni la scultura lo ha spinto oltre, portandolo a confrontarsi con materiali plastici, stampanti 3D, cera persa, metalli e leghe.
“La ripetizione del verbo – ha scritto la filosofa Beatrice Pazi – genera una meditazione visiva. L’arte non illustra, attiva.”
Ed è proprio quello che è successo il 7 maggio. Le sue verba agiscono come codici. Non spiegano, ma alterano. Attivano connessioni profonde, risvegliano il corpo neurologico dello spettatore. Niente messaggi diretti. Solo vibrazioni, memoria, imprinting.
Lo studio come palcoscenico silenzioso
La scelta di ospitare l’evento nello studio – e non in una galleria – è tutto fuorché casuale. È una dichiarazione di poetica. Qui le opere convivono con la polvere di resina, con le mani sporche di cera, con gli schizzi sulle pareti e le note scritte a pennarello sul tavolo. È un’arte che nasce nel caos controllato, nella pratica quotidiana, nel rumore del compressore e nel silenzio della fusione.
Chi c’era ha respirato quest’aria. Ha visto le opere vive, nella loro fase più onesta. Alcune appese, altre poggiate, altre ancora in gestazione. Eppure tutte, anche le non finite, già capaci di colpire con forza.
Un artista fuori catalogo
Alessandro Grimoldieu non rientra nei circuiti facili. Lavora sul margine, ma con rigore. Ha collaborato con stilisti come Tom Rebl e architetti come Fuksas, ma non ha mai ceduto all’estetica da copertina. Preferisce il gesto, l’urgenza, il rischio. Le sue “Personae”, le sue maschere e i suoi gioielli parlano di identità mutevoli, di corpi espansi, di tecnologia che non imita l’uomo, ma lo proietta oltre.
Verba Sublime è solo l’ultimo capitolo, e forse il più potente, di una ricerca che fonde corpo, linguaggio e trasformazione. È un invito a riconsiderare cosa può essere una parola, cosa può diventare una forma, e dove può portarci l’arte se smettiamo di chiederle di piacere e iniziamo a chiederle di cambiare.