Il Duomo di Milano parla: La croce resta appesa

Al termine della rappresentazione del Poema della croce, l’autrice Alda Merini sull’altare maggiore: «Lottate per il nostro simbolo». Ci voleva questa donna, emblema della sincera ambrosianità, per dire quello che altri temono di pronunciare

Quando la storia ti capita sotto i piedi, quasi per caso, ringrazi il Padre Eterno di essere lì a guardarla. Chi ha disegnato la navata del Duomo di Milano aveva in mente uomini alti e slanciati, l’esatto contrario di Sua Eminenza Tettamanzi che è poco più alto dell’altar maggiore e il gotico lo indossa malissimo. Ma questa sera la protagonista è la pazza della porta accanto, stessa statura claudicante e malferma, che emerge dal presbiterio e spunta alla destra dell’altare la poetessa dei Navigli, caracolla in silenzio, si schernisce degli applausi e delle tremila anime in piedi adoranti e si siede dietro al leggìo. Attorno a lei una sessantina di belle speranze musicali e l’affetto silenzioso e strisciante di tutti quelli che non vogliono mollare, non digeriscono l’esser nati “tugnit” (svizzeri) per morire “globali”, vogliono essere quello che sono, milanesi e nient’altro. Accade in Milano, poco tempo fa, per grazia della associazione culturale dei Navigli Lombardi e del giovane presidente Emanuele Errico che nei ritagli di tempo, tra una ristrutturazione e un progetto, ha pensato che Milano ha un’anima assai simile a quella della sua grande poetessa, Alda Merini. E se la follìa che respiriamo ogni giorno nei volti stralunati di quelli che passano per strada ha un senso ed un futuro, lo possiamo leggere nell’amore disperato e nella solitudine devastata di questa vita fatale. In chiesa serpeggia l’odore buono delle cose perdute, la faccia della nonna che ti guarda mentre metti il carbone nella stufa in una casa di ringhiera, e l’arrotino che urla in corte “muleeeta, muleeta!”, cui bisogna ricorrere per affilare i coltelli. Sgorgano questi ricordi dai sonetti della Merini che voleva abbandonare i Navigli ma poi a settantacinque primavere vi è ritornata attratta dal magnetismo del proprio natale, classe 1931. Quella del dopoguerra era una Milano che non voleva stranieri in Chiesa e studiava la poesia Sant’Ambrogio del Giusti che a proposito di croati e boemi diceva: «Si sentiva un’afa, un alito di lezzo: scusi, Eccellenza, mi parean di sego, in quella bella casa del Signore». Affermare che Alda Merini è il più grande poeta italiano vivente, forse non basta, perché oltre alla poesia vive in lei l’indigestione del dolore che la trasforma in profeta. Lei peccatrice in manicomio trova l’umanità, la sua strada e la nostra:

Io come voi sono stata sorpresa mentre rubavo la vita,
buttata fuori dal mio desiderio d’amore.
Io come voi non sono stata ascoltata e ho visto le sbarre
del silenzio crescermi intorno e strapparmi i capelli.
io come voi ho pianto ho riso e ho sperato.
Io come voi mi sono sentita togliere i vestiti di dosso
e quando mi hanno dato in mano la mia vergogna
ho mangiato vergogna ogni giorno.
Io come voi ho soccorso il nemico
ho avuto fede nei miei poveri panni
e ho domandato che cosa sia il Signore
poi dall’idea della sua esistenza ho tratto forza
per sentire il martirio volarmi intorno come colomba viva.
Io come voi ho consumato l’amore da sola lontana
persino dal Cristo risorto.
ma io come voi
sono tornata alla scienza del dolore dell’uomo
che è la scienza mia.

Così, piantata come un lanzo di fronte alla moltitudine del Duomo che la adora, dopo aver ricamato le sue belle poesie, lancia un messaggio, quasi una invocazione, sotto il Crocefisso che sostiene la navata centrale: «Lottate per il Crocefisso, non abbandonatelo, esponetelo nelle case e nelle scuole, è il segno della sofferenza dell’uomo che riempie le nostre anime».
E dopo tanti anni di militanza cristiana, padana e anticomunista uno come me che tutti i giorni cerca il modo per raccontare meglio le cose, rimane basito e scopre che alla fine era così facile, bastava guardarsi dentro e descrivere la vita con cura. Dicono che che Papa Wojtyla avesse il suo “Magnificat” sul comodino, l’incontro della Merini con la sofferenza di Maria, la donna condannata ad avere un figlio solo unigenito ed a perderlo. E se un ateo, nella sua fatica di essere ateo, non riconosce in questa donna la grande epopea della vita di noi tutti, anche della sua, e non si lascia cullare per un momento dalla certezza della Croce, allora è un ateo disonesto, in special modo con se stesso. È lei che alla fine ringrazia Don Ravasi per avere “forzato le porte del Duomo”, consentendole di raccontare il suo Poema della croce ai Milanesi: non scherziamo, se non dedicassero un po’ dell’Altar Maggiore al Golgota della Merini sarebbe come buttar fuori Giuseppe Verdi dal Conservatorio, cosa che infatti è puntualmente avvenuta: nemo profeta in Patria, e in questa città non succede di tutto, perché di solito è già successo! I grandi artisti che l’hanno accompagnata in questa preghiera laica, in questo rito sacrale senza eucarestia, diventano piccoli nonostante la loro bravura, a partire da Giovanni Nuti, all’orchestra di Daniele Ferretti, al coro polifonico Astense (“Poema della Croce” in vendita alle Messaggerie, in cartellone ai Filodrammatici dal prossimo 2 aprile). Negli occhi e nell’anima rimane solo lei che, piantata malferma come Salomone tra le colonne del Tempio, indossa la Croce che le sta pochi metri sopra il capo e prima di andarsene disegna l’apogeo involontario di se stessa: «Ma quanto onore a questa peccatrice, grazie, è come se mi aveste regalato una laurea all’Università». E tutto il pubblico dei fedeli (!) rimane sospeso e inchiodato in un limbo a chiedersi cos’è successo, se era una Messa, uno spettacolo, o l’adunata di chi non vuole più subire furti con scasso alla propria cultura ed alla propria identità. Poi uno esce, fa quattro gradini per arrivare sul sagrato del Duomo, vede la Milano “moderna”, quella delle facce strane, quella che abita tutti i giorni sulle pagine dei giornali – reparto cronaca nera – e gli viene voglia di piangere, e di urlare alla Luna.

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